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“Da Grazia Deledda a Michela Murgia: C’è un’eredità matriarcale nella cultura delle donne sarde?”, incontro sabato 23 marzo dalle ore 15.30 alle 20.00, StadtRaum Frankfurt (Amka), Mainzer Landstr. 293, Francoforte, sala U 105/106 *** Veranstaltung “Von Grazia Deledda bis Michela Murgia: Gibt es ein matriarchalisches Erbe in der Kultur der sardischen Frauen?”

Il voto alle donne italiane

Nell’ottobre del 1944 l’U.D.I.(Unione Donne Italiane) scrive al Comitato di Liberazione Nazionale per chiedere che questo appoggi la richiesta di diritto di voto delle donne presso il governo provvisorio. “ Le donne italiane – scrive il comitato d’iniziativa dell’UDI – ritengono di aver acquistato il diritto di partecipare pienamente alla vita pubblica del paese attraverso le dure sofferenze sopportate durante le guerre scatenate dal fascismo e soprattutto attraverso la coraggiosa collaborazione alla lotta di Liberazione che il popolo italiano ha combattuto contro l’oppressore tedesco e fascista. Mentre quattro anni di lunghissima guerra hanno eguagliato nei sacrifici e nei rischi le donne italiane agli stessi combattenti nei fronti, la lotta contro i nazifascisti ha dimostrato la piena e consapevole solidarietà femminile con tutti i militanti del fronte interno e delle bande partigiane, e quindi la raggiunta capacità di attiva collaborazione anche nell’opera di ricostruzione” 1.

Nel febbraio seguente le donne ottennero il diritto di voto attivo e passivo, che avevano chiesto già alla fine dell’ottocento, quasi ultime a riceverlo in Europa e mentre l’Italia settentrionale era ancora governata dall’occupante tedesco e dalla Repubblica di Salò. Il governo provvisorio emanò un decreto in proposito – non fu una legge e non seguì nessun dibattito sul ruolo della donna nello Stato a venire, come ci si sarebbe potuto aspettare. Il diritto di voto venne concesso alle donne come una specie di compensazione per le fatiche ed i dolori sofferti durante la guerra. Solamente alcuni giornali commentarono l’avvenimento – un titolo tra gli altri fu: ”Adesso comanderanno le donne?”, domanda che rivela l’antico timore che donne, che non ubbidiscono, vogliano comandare.

Il modo, con cui alle donne fu concesso il diritto di voto, e l’argomentazione usata per chiederlo – ma perchè dovevano dimostrare di esserselo meritato? forse che gli uomini l’avevano a suo tempo dimostrato? senza considerare che chiedere un diritto è già di per sè il segno di essere capaci ad esercitarlo – segna l’entrata in sordina delle donne italiane nell’arena politica. Benchè poche a far parte della Costituente, è a loro che si deve l’articolo della costituzione che sancisce la parità tra i sessi ed il loro peso nelle elezioni, come votanti, è sempre stato rilevante. Certamente determinante per la vittoria della DC nelle prime elezioni del 1948, il voto attivo delle donne ha contribuito a plasmare il volto della prima Repubblica e a segnarne la fine.

Basterebbe spiegare il progressivo calo di voti della DC con il minore consenso femminile, come ebbe a dire Paola Gaiotti De Biase nell’86 (Trasmissione Rai “Repubblica sostantivo maschile”), non riconoscendosi più le nuove generazioni nel ruolo di angelo del focolare di tradizione cattolica. Le donne hanno sempre massicciamente votato, dunque, ma si sono fatte eleggere poco. Erano il 7,7 % in parlamento nel 1948, stessa percentuale ancora nell’85, oggi ci sono 71 deputate su 616 deputati.

Al di là della loro scarsa presenza in parlamento, le donne hanno però agito attraverso vari canali di opinione, che sarebbe lungo elencare, fino alla massiccia pressione del secondo movimento femminista degli anni settanta- non dimentichiamo che c’era stato un femminismo attivo, poi soffocato dal fascismo, che era presente già dall’unità d’Italia. Sono state abolite ad una ad una le leggi del Codice Rocco riguardanti le donne, anche grazie a cause per incostituzionalità – intentate da donne, che dovevano avere il consenso del marito per lavorare, per la scelta delle amicizie e corrispondenze e così via. Si era contato su di loro per abolire la legge sul divorzio ed il primo referendum popolare ha rivelato, confermando la legge, il paese reale ed al suo interno una donna al passo con i valori della libertà di scelta ed il rifiuto della costrizione. Nel ’75 è stato varato il nuovo diritto di famiglia e, se abbiano una legge che regolamenta l’interruzione di gravidanza, lo dobbiamo ad una iniziativa popolare femminile, successivamente confermata dal referendum. Dietro all’abolizione degli articoli del codice dell’onore negli anni ’80 e delle leggi sulla violenza sessuale del Codice Rocco, abolite nel ’96, che, si ricordi, erano sotto il titolo “reati contro la morale” e non contro la persona, c’è stato un dibattito, non solo in parlamento, che ha coinvolto donne impegnate nei movimenti femministi, nelle professioni, nella stampa in tutto il paese.

Però oggi quasi nessuno si ricorda che sessant’anni fa ci è stato dato il diritto di voto e a me questo sembra significativo. Sarebbe una buona occasione per fare il punto sulla partecipazione politica delle donne e questo non prenderne atto è sintomatico di un diffuso disagio tra le donne, oltre che di una sovrana noncuranza del governo italiano per questa ricorrenza (non credo nemmeno che sia voluta, se ne saranno dimenticati o è una lacuna nella conoscenza storica, che tra le numerose altre non fa meraviglia). Diciamocelo: negli ultimi anni stiamo cercando di difendere quello che ci pareva di aver conquistato di libertà, autodeterminazione e ventaglio di scelte a disposizione, di passi avanti non si osa nemmeno parlare. La legge sulla fecondazione assistita, che può venir applicata fisicamente solo sulle donne, è stata varata da una maggioranza maschile. Se anche, grazie ai 4 milioni di firme raccolte, in maggioranza femminili, si riuscirà a migliorarla, questo non cambia la situazione della nostra generale impotenza sul piano legislativo. Per questo è necessario che anche le donne abbiano un posto nella stanza dei bottoni, dato che non è pensabile che una maggioranza maschile si occupi dei problemi del privato, che è sempre stato tanto comodo scaricare sulle spalle delle donne. In Germania ci si é nel frattempo accorti che la denatalità è probabilmente collegata con il mancato intervento pubblico a favore delle famiglie (dire “donne” è ancora troppo rivoluzionario, la decisione di non avere figli, che chissà perchè non hanno il 40% delle laureate tedesche, viene sempre attribuita alla coppia). La – maggiore – denatalità in Italia non sembra preoccupare eccessivamente il paese, anche se abbiamo la più alta percentuale di anziani in Europa. Per far entrare i temi della gestione del privato in Parlamento, dovremmo esserci: invece lì ci siamo in numero tale da non pesare. Dove siamo? Siamo nelle amministrazioni comunali, nei progetti per le pari opportunità, che comprendono piani per migliorare i servizi e gli orari della città, per una gestione e pianificazione dei tempi pubblici e privati, che li renda compatibili, per esperienze di gender auditing e di bilanci di genere, che rivelino quanto si spende per le donne e per una loro effettiva libertà di scelta progettuale di vita familiare e professionale. Siamo nei gruppi dei girotondi, anzi li abbiamo inventati noi. Siamo insomma dappertutto dove c’è da fare un lavoro quotidiano e spesso anonimo.

Dato che questo non basta, cerchiamo di sviluppare nuove strategie.
Per questo abbiamo organizzato l’incontro del 19 febbraio a Francoforte. Vogliamo riflettere, partendo dalla data dell’estensione del voto ( attivo, quello passivo arrivò, significativamente, dopo), sulla nostra partecipazione politica dal 1945 ad oggi, in Italia, negli organismi previsti per gli emigrati italiani, nei parlamenti comunali della Repubblica Federale. Speriamo che fare un punto della situazione ci serva, sia per raccogliere nuovi spunti di azione, sia per allargare la rete di donne e renderla più
efficiente, dandole la visibilità che merita.

Liana Novelli Glaab, Coordinamento Donne Italiane di Francoforte